Ai tempi del liceo ero sempre sulle barricate; il mio impegno scolastico consisteva per la maggior parte nella partecipazione a scioperi, assemblee, manifestazioni, e discussioni politiche, convinta che avrei cambiato il mondo. Tutto questo avveniva con indosso l’eskimo d’ordinanza, le scarpe da ginnastica un po’ sporche e lo zainetto militare acquistato al Mercatino Americano di Livorno…più che un abbigliamento, o come si dice oggi “un outfit”, era una dichiarazione politica.

Lo studio occupava uno spazio molto piccolo, il minimo indispensabile, anche se avevo una leggera simpatia per la Letteratura Italiana perché il professore che avevamo era straordinario; ancora oggi, è una delle persone che stimo di più per l’eleganza con la quale espone le sue idee ed i suoi pensieri, specialmente sui social e può testimoniare quanto ho detto.

Ritornando alla Letteratura Italiana, ho avuto un vero e proprio colpo di fulmine per “I Promessi Sposi”, in particolare mi colpì un brano che per la prima volta vado a ricordare e scrivere…se l’avessi fatto ai tempi del liceo, oltre ai miei compagni mi avrebbero preso in giro anche i bidelli…

Il passo che mi colpì tanto fu quando Renzo, alla ricerca di un testimone per le nozze, va a casa di Tonio. Quando arriva trova il suo amico, seduto accanto al camino, intento a preparare la cena mentre i suoi familiari lo osservano affamati. Il pasto consiste soltanto in un piccolo quantitativo di polenta; nel libro si parla di “una piccola luna scura”, perché era fatta con farina di grano saraceno. La farina è veramente poca, tanto è vero che Tonio non vede l’ora di poter riavere la collana d’oro di sua moglie, data in pegno a Don Abbondio, per poterla barattare con altro cibo e sfamare così la famiglia. Quando ho letto quelle righe ho provato innanzitutto una gran pena nell’avvertire la fame che provavano quelle povere persone, ma anche il grande calore di una famiglia, unita per condividere un pasto, che poi è il mio preferito da sempre. Mia nonna infatti mi preparava la polenta almeno due volte alla settimana: per lei era “la Pulenda”, che serviva con il ragù, con i funghi o semplicemente con olio e formaggio. Quella che avanzava, il giorno dopo veniva fritta e poteva prendere due strade: se veniva aggiunto il sale sarebbe diventata un buonissimo contorno, se invece si aggiungeva lo zucchero e la marmellata di fichi, si trasformava in un dessert od in una merenda straordinaria.

Naturalmente la polenta doveva essere mescolata nella pentola almeno per un’ora quindi, quando si faceva più solida, entrava in gioco mio nonno. Un vero e proprio “Dream Team”! Quando mancavano una quindicina di minuti al termine della cottura, nonna Marina dalla cucina “sussurrava”, con una frequenza di decibel che avrebbero udito anche in Sardegna: “La vuoi a palle o a fette”? Le palle non sono altro che piccole cucchiaiate di polenta lasciata piuttosto morbida ed è la mia versione preferita. Accontentato il partito delle palle, veniva rovesciata su un tagliere, lasciata un po’ raffreddare e tagliata a fette con un filo di cotone.

Ci si potrebbe chiedere perché il filo se sono stati inventati i coltelli. Il motivo me lo spiegò mio suocero: la farina di mais ha una particolare  granulosità che rende più gustosa la fetta e tale granulosità viene garantita maggiormente dal taglio con il filo di cotone rispetto ad una lama. Quando poi si frigge, il bordo irregolare regala più crosticina rispetto ad una fetta liscia.

Appena sedevamo a tavola per mangiare mio nonno partiva di default con la frase: “In tempo di guerra……”.

In tempo di guerra la polenta permetteva a tante famiglie di sfamarsi… e qui entra in scena l’aringa. Il pesce veniva legato con uno spago alla trave del soffitto sopra la tavola ed i commensali potevano insaporire la fetta di polenta strusciandocela sopra. La domenica il pesce veniva tolto dallo spago, tagliato a pezzetti e condiviso con tutta la famiglia. Sarebbe bello pensare che sono tempi passati, ma il vicino conflitto in Ucraina e purtroppo anche quelli dimenticati in molte altre parti del Mondo dicono esattamente il contrario……

Un giorno chiesi a mio nonno perché il mais si chiama grano turco. Lui mi disse che dai tempi antichi (e io presumo dopo la scoperta dell’America) tutto quello che non si conosceva era turco. Non so se sia vero, non ho approfondito, ma è una spiegazione che a me piace.

Ora la polenta la preparo spesso anch’io, ma mantengo il metodo e le dosi della mia nonna: 500 grammi di farina due litri di acqua, un cucchiaio di sale grosso ed un cucchiaio di olio d’oliva, pentola, mestolo ed un’ora di cottura mescolando sempre per non farla attaccare…..perfetto antistress. L’unica differenza è che io preferisco il Fioretto, che è una farina di mais macinata più fine rispetto a quella che usava nonna Marina, che era la Bramata. Terminata la cottura la servo “a palle” con ragù di carne al quale ho aggiunto costine di maiale (le volevo con tanta carne intorno, tagliate una per una e piccole……grazie Quaglierini).

Questa volta l’abbinamento del vino lo faccio con il cuore; non l’ho mai assaggiato e potrei dire che mi lascio guidare dall’uvaggio ma in realtà mi ispira il nome: Nonno Hollywood!. Si tratta di un blend di Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Petit Verdot e Merlot. Al naso ha un bouquet che mi piace tantissimo: fiori rossi, frutti come prugna matura, mora e poi pepe nero e liquirizia. Tannini giusti. Soddisfatti il cuore ed il palato.

Quando la polenta è cotta ne verso un piccolo quantitativo in uno stampo da plum-cake oliato. Mi serve per dare un tocco di modernità, infatti preparo delle fette quadrate che faccio grigliare sulla piastra e servo con sopra il baccalà mantecato. A prima vista sembrerebbe la nobile arte del riciclo, perché mangio questa ricetta il giorno dopo, in realtà mi sono creata l’occasione per abbinare un vino che fa parte di una zona della Francia che ci regala i migliori bianchi del mondo, l’Alsazia. Sono eleganti e raffinati, hanno aromi allo stesso tempo sottili ed intensi, inconfondibili. Ho scelto un Riesling perché secondo me è quello che esprime meglio il terroir dell’Alsazia. Si tratta di un Gustave Lorentz Riesling Reserve 2021 prodotto nel piccolo villaggio di Bergheim da un’azienda attiva fin dal 1836. Il colore è giallo pallido brillante. Al naso risulta raffinato, con profumi di agrumi e sentori minerali dovuti al calcare del terreno. In bocca è fresco e piacevolmente acido. Un Riesling Reserve di grande struttura e dal sapore pulito e secco, tipico di quel territorio. Perfetto per abbinarlo alla mia polenta e baccalà mantecato.

Degustare questo vino mi ha fatto venire il desiderio di visitare l’Alsazia percorrendo i 120 Km della Rue de Vin che attraversa minuscoli borghi con case a graticcio dalle tonalità pastello, castelli medievali arroccati sulle colline e filari di vigneti a perdita d’occhio. Il mio assistente, in maniera sibillina non mi ha dato una risposta, ma si è messo a canticchiare: “Un viaggio ha senso solo senza ritorno se non in volo, senza fermate nè confini, solo orizzonti, neanche troppo lontani…” Lo prendo per un si!!!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *