Ho fatto del libro dell’Artusi la mia guida: “il miglior maestro è la pratica sotto un esercente capace, ma anche senza di esso, con una scorta simile a questa mia, mettendovi con molto impegno al lavoro, potete, io spero annaspar qualche cosa”, afferma l’autore nella prefazione e queste parole mi hanno sempre accompagnato quando cucino. Ho letto e riletto miliardi di volte il trattato di Pellegrino Artusi, che mi ha fornito la conoscenza delle basi della cucina perché penso, che solo attraverso queste, poi ci si può lanciare in rivisitazioni, scomponimenti, fusion o tocchi personali.

Mi immagino l’Artusi impegnato nei molteplici tentativi, in una bellissima cucina d’altri tempi, provare ed assaggiare per arrivare alla ricetta perfetta.

Adoro lo scrittore Marco Malvaldi che nei suoi libri “Odore di chiuso” e “Il Borghese Pellegrino” ha reso l’Artusi protagonista dei due gialli; specialmente nel secondo dove Pellegrino si trova prima ad essere prima un indiziato e poi detective fondamentale per la risoluzione del caso.

“La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” è carica di suggerimenti essenziali: ”La cucina è una bricconcella, spesso e volentieri fa disperare, ma da anche piacere, perché quelle volte che riuscite o che avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria”…..”Se non si ha la pretesa di diventare un cuoco di baldacchino non credo sia necessario per riuscire, di nascere con una cazzaruola in capo, basta la passione, molta attenzione e l’avvezzarsi precisi: poi scegliete sempre per materia prima roba della più fine, che questa vi farà figurare”.

Proprio per parlare di materie prime essendo toscana quando penso al nostro olio di altissima qualità, buon vino e agli altri prodotti che la nostra terra offre sia per piatti di mare che di terra, mi si illuminano gli occhi. Ma anche le altre regioni regalano eccellenti piatti della tradizione e prodotti che tutto il mondo ci invidia. Perciò quando sento parlare di Cucina Italiana mi viene da immaginare un cerchio d’insieme dove gli elementi all’interno sono i piatti tipici che ognuna regione possiede, unici per sapore ma accumunati dalla semplicità e dall’eccellenza degli ingredienti. Le volte però che sono andata all’estero abbandono il cibo italiano in maniera temporanea ma totale perché ho la convinzione che un paese si conosce meglio dai piatti e dai sapori che lo caratterizzano. Il cibo parla della cultura di quel luogo. Anni fa andai a New York con la mia famiglia e vidi per la prima volta il negozio delle insalate “fai da te” vicino al Mo Ma dove scegli la tua preferita fra quelle proposte in contenitori di plastica trasparente e l’arricchisci chiedendo agli addetti dietro al banco alcuni della miriade di ingredienti che si trovano in una vetrina e ci aggiungi il condimento che vuoi.

 

Ora non sapendo una parola d’inglese, mandavo avanti mio marito e mio figlio e io mi limitavo a dire “the same”.  Dato che queste insalate erano buone e poco costose, all’ora di pranzo ci siamo ritornati molte volte ed ho notato che quando era il mio turno il ragazzo che mi serviva dava una leggera gomitata al suo collega e ridacchiavano. Lì ho capito che per l’America ero diventata “The Same”. Un’altra esperienza è stata sempre in occasione di un viaggio negli Stati Uniti dove siamo andati a visitare la Monument Valley. In un ristorante Tipico Navajo ho mangiato il Navajo tacos, un piatto buonissimo con una base simile alla pizza fritta con chili, lattuga, pomodori, salsa piccante e fagioli.

Dato che l’avevo mangiato per cena tutta la notte ho visto come nel film Dumbo della Disney, elefanti rosa che mi ballavano sullo stomaco. Tornando con la mente in Italia, visto che è l’ora di cucinare, decido per un piatto regionale e facendo un rapido quesito alle mie papille gustative decido per una cacio e pepe, che è un’esplosione di gusto e saltimbocca alla romana; un bel viaggio nel Lazio. Naturalmente cercherò di eseguire i piatti rispettando la tradizione anche se mi viene un po’ da sorridere quando sento parlare o leggo di ricette originali….secondo me questo termine è più appropriato per pezzi di ricambio dell’ auto o per elettrodomestici.

Quando l’acqua (dove ho messo meno sale del solito) bolle, butto gli spaghetti, macino i grani di pepe nero con il mortaio e li faccio tostare in una padella a fuoco basso. In una ciotola grattugio il pecorino bello stagionato e aggiungo un po’ di acqua di cottura per farne una cremina dalla consistenza della ricotta. Il pepe dopo circa tre minuti è pronto e aggiungo anche lì un mestolo di acqua.

Quando mancano tre minuti alla cottura della pasta indicata dalla busta, tolgo gli spaghetti e li risotto nella padella e se serve aggiungo ancora acqua. A cottura ultimata spengo lascio intiepidire almeno un minuto. Aggiungo la crema di pecorino e mescolo per amalgamare bene.

Metto nei piatti e per chi la vuole ancora una bella macinata di pepe. Per i saltimbocca ho mandato il mio collaboratore domestico/tecnico del computer/marito dal nostro macellaio di fiducia Federico Quaglierini con un biglietto dove chiedevo fette di vitello sui 4 mm di spessore. Si sono fatti grandi risate sul fatto che nel negozio mancava un calibro per misurarle. Sono pignola, ma se fossero state un millimetro in più o meno non sarebbe stata certo la fine del mondo! Sulla carne metto il prosciutto e la salvia, fissando tutto con uno stuzzicadenti ed infarino la parte di sotto. In una padella, da toscana, aggiungo solo olio d’oliva e non il burro come la ricetta chiederebbe e quando è caldo metto i saltimbocca.

Quando sono rosolati sfumo con il vino (quello che poi berremo con i piatti, se adopero materie prime di qualità anche il vino deve essere all’altezza) a fiamma alta. Quando sono cotti li metto su un vassoio, faccio restringere il liquido di cottura e ce lo verso sopra. Per l’abbinamento con il vino, la sacralità della tradizione prevederebbe un Frascati superiore, ma per il mio spirito libero e per il fatto che nelle enoteche della nostra zona non se ne trova, non volendo creare conflitti comunali, provinciali e regionali ho scelto di andare all’estero, con un bel Sancerre Clos Paradis Domaine Fouassier. Si tratta di un vino bianco della Loira prodotto con uve Sauvignon Blanc di una vigna impiantata nei primi del 900. Il colore è un bel giallo paglierino ed all’olfatto profuma di agrumi, melone e frutti tropicali ma anche, In bocca ha un delicato sapore di limone e miele, persistente e raffinato. Per il Sommelier: vino estremamente equilibrato e dal sorso pieno. Per Alessandra un buon vino che racconta una storia, pulito e fresco come le acque della Loira che si sposa benissimo sia con la cacio e pepe che con i saltimbocca.

Ho chiamato questo mio diario di viaggio il gusto libero perché la libertà di ricercare abbinamenti tra il cibo ed il vino è la molla che mi spinge a sperimentare anche cose come abbinare un vino francese ad un tradizionalissimo piatto regionale laziale. Se il cibo è convivialità, il vino è l’emblema dell’inclusività, perché accoglie sotto un unico grande ombrello fantastici prodotti che provengono da tutto il mondo, ma che derivano tutti da un’unica pianta, la vite.

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