Cucinare è amare. Talvolta mi viene da amare me stessa preparando gli spaghetti alle vongole, un primo piatto che mi fa letteralmente impazzire.

Tra i molti difetti che ho c’è quello di essere un giudice implacabile della mia opera. Faccio un esempio: quando preparo la cacio e pepe, quasi sempre da chi la mangia con me spesso qualche complimento arriva. Ma non sempre sono soddisfatta. Quei filini che fa il pecorino dopo che l’ho aggiunto agli spaghetti risottati non devono esserci e la cremina deve essere perfetta. Queste cose succedono quando ho fretta o molta fame e non ho la pazienza di attendere il calare della temperatura degli spaghetti.

Tornando alle vongole, ogni volta che preparo questa pasta mi affiorano alla mente ricordi bellissimi della mia infanzia.

Avevo circa otto anni e mio nonno, quando aveva la giornata di riposo dopo il turno di notte, mi caricava sulla sua bicicletta e mi portava alla Baia del Quercetano a Castiglioncello. La bicicletta era un modello da donna a cui lui aveva aggiunto una canna fatta con una tavola di legno dove mi faceva sedere all’amazzone. Arrivati sul mare tirava fuori un coltello che si era fatto da solo, con il manico rivestito di spago e la lama a forma di lancia, ed iniziava a staccare le padelle dagli scogli (in realtà si chiamano “patelle” ma lui le ha sempre chiamate padelle e tali resteranno per me), le toglieva dalla conchiglia e io le mangiavo. A quei tempi il mare era pulito, oggi.. scorrerebbero fiumi di Enterogermina dentro argini di Imodium.

Dopo le padelle passavamo ai ricci. Mi aveva insegnato a tenerli nel palmo della mano senza pungermi ed ancora oggi mi sembra di sentire il lieve solletico che facevano gli aghi del riccio quando si muoveva nella mia mano. Al ritorno a casa la merenda che mi aveva dato mia nonna era ovviamente sempre intatta.

Sull’onda di questi ricordi mi accingo a cucinare: prendo le vongole e, mentre le sciacquo bene, controllo che non ce ne siano alcune rotte. In una zuppiera preparo tre litri di acqua e centocinque grammi di sale. Solo in questa fase sono maniacalmente precisa. Metto le vongole dentro al recipiente e sto lì qualche minuto a guardare qualche bollicina in superficie ed a sentire rumori di piccoli movimenti….Stanno lì per circa tre ore.

Devo dire che, secondo me, per cucinare bene non occorre avere talento come per il canto e la pittura e neppure una passione sviscerata, perché altrimenti io tanto bene non sarei messa. Occorre semplicemente farlo tante volte, ripetere la preparazione di un piatto fino a che si sente che è buono. All’inizio è giustissimo seguire le ricette ufficiali ma, quando ci sentiamo sicuri e soddisfatti, possiamo personalizzare qualsiasi piatto. O, come diceva sempre mio suocero Mauro, dare il tocco dello chef. Due spicchi di aglio, un po’ di olio di oliva, padella calda e faccio aprire le vongole. A questo punto ne sguscio parecchie e ne lascio pochissime intatte, per figura. Filtro il liquido che hanno fatto e, soprattutto, lavo la padella dove le ho fatte aprire. La mia filosofia è che meno pentole da lavare ci sono e meglio è! Nella padella a questo punto entrano in gioco olio, aglio ed un peperoncino. La “pementa”, come lo chiamava mio nonno, per me è fondamentale. Appena si è insaporito l’olio aggiungo il liquido che hanno fatto le vongole durante l’apertura, insieme a un po’ d’acqua della pasta che nel frattempo ho messo a cuocere. Questo mi serve per l’amido. Aggiungo anche le vongole e, a tre minuti dal termine della loro cottura, gli spaghetti. Mi piacerebbe dare l’immagine di me che spadello, ma in realtà non ne sono capace e giro la pasta con una pinza. Pronti per andare in tavola!

A me gli spaghetti alle vongole piacciono semplici semplici; voglio sentire solo il sapore delle vongole. Quindi niente vino, limone, prezzemolo, ma sopratutto niente farina alla fine, come fanno alcuni per creare la cremosità. Questa pratica a mio avviso è illegale in mille Paesi.

 

Quale vino abbinare? Lo sforzo è davvero lieve: Vermentino di Gallura senza sé e senza ma. Per onore di cronaca debbo fare una precisazione: molto spesso i genitori dei piccoli pazienti di mio marito gli regalano bottiglie di vino, con picchi considerevoli a Natale e Pasqua. Grazie: vi amo tutti! Il Vermentino, che fa parte di questi regali, è “Vigna ‘Ngena’ Capichera”. Quello che mi colpisce subito assaggiandolo è il sentore chiaro di ginestra e biancospino. Meravigliosi fiori d’arancio mi arrivano al naso subito dopo, insieme a mela e pesca bianca matura. La freschezza per me è quella giusta .

Le considerazione finali sono che, se non avessi buon senso ed un metabolismo lento dovuto all’età, travolta da un insolito destino in un azzurro mare di ricordi, berrei tutta la bottiglia di Vermentino e mangerei tutto il mezzo chilo di pasta…..

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